ALLA RICERCA DEL GUSTO PERDUTOPrima Parte

Con il passare degli anni, l’alimentazione dell’ Uomo è cambiata ed a tale mutazione si è accompagnata la perdita del la cucina di un tempo. Con la scomparsa dell’Arte Culinaria dei nostri avi sono andati smarriti tutti quei sapori, quegli odori, quei contesti nei quali si gustavano molte pietanze, così come si è smarrito il consumo di alcuni frutti.
Con questo scritto vogliamo provare a trasmettere alcune emozioni, far rivivere i profumi di un tempo, far gustare sapori ormai svaniti nella notte dei tempi, rinverdire la convivialità perduta dei nostri Nonni descrivendo alimenti , frutti pietanze e dimenticati, tentando così di riportare vivi i ricordi legati alla fanciullezza. A chi ha vissuto quei tempi ed ha avuto la fortuna di assaporare gli alimenti che andremo a descrivere , dopo aver letto questo breve scritto, chiediamo di chiudere per un attimo gli occhi, dilatare le narici ed attivare le papille gustative per rivivere non solo con la vista ma anche con tutti gli altri organi sensoriali, questi bei profumi e gusti del nostro orgoglioso passato culinario.

‘MPANATA –In Sicilia in particolare a Ragusa e a Catania non è altro che una focaccia ripiena, mentre nel reggino sotto questo nome viene chiamato il siero con il residuo di ricotta dove va immerso “ ù biscottu i ranu”(il pane biscottato di grano).

Questa prelibatezza si gustava al mattino presto, fra le 5 e le 6 , negli ovili, dai pastori quando questi lavoravano il latte di pecora o capra appena munto prima di avviarli al pascolo. Se il numero dei commensali fosse stato esiguo allora il composto si metteva singolarmente nella ciotola di legno fornita “ ru pecuraru”( dal pastore); se invece i commensali fossero stati numerosi, il pane veniva sbriciolato direttamente nel recipiente di rame dove si cucinava il latte, lasciandolo ammorbidire, poi si gettava il siero in eccesso e si distribuiva il pane inzuppato con i residui di ricotta. In questi frangenti fra i commensali si soleva dire “…….. e a ricotta senza seru si li mangia lu pecuraru” che stava a significare che l’elemento ricotta era veramente una chimera.

Molte mamme facevano “ a ‘mpanata” in casa con il latte vaccino , usando come caglio un rametto di fico, che con la sua secrezione addensava il latte producendo il siero e la ricotta.

Il detto riferito a questa pietanza era il seguente: “U’ pecuraru puru si u vesti i sita puzza sempri di lacciata”( il pastore pure se è vestito di seta odora sempre di siero).

 

A’ SCIRUBETTA – La parola deriva dall’arabo sharabat che significa bevanda, in dialetto anche zurbettu da cui a sua volta deriva il termine italiano sorbetto.

“ A scirubetta” è la prima forma di gelato, detto anche il “gelato dei poveri”, ed era costituito dalla neve appena raccolta mescolata con il vino cotto di fichi o vincotto( mosto cotto) o marmellate varie o limone e zucchero.                                       Questo primo gelato veniva degustato tutto l’anno, anche in piena estate, grazie alle neviere che si trovavano in montagna. Queste non erano altro che delle grandi buche ricolme di neve, rivestite con pietre e ricoperte con fogliame preferibilmente di felci.                    Nel Comune di Gallina una delle ultime venditrice di neve fu la signora Cristina Zuccalà di Natale. Correva l’anno 1925, e fu autorizzata dall’Amministrazione Comunale a discapito di Silva Sperato, il quale s’impegnava a vendere la neve a 60 centesimi al Kg, mentre la Zuccalà s’impegnava a venderla a 35 centesimi al Kg. L’esercente che si aggiudicava la gara d’appalto per la vendita della neve aveva l’obbligo a mantenerla giorno e notte dal 24 Giugno al 15 settembre. Qualora a fine stagione la ditta avesse mantenuto gli impegni presi, il Comune, come premio, le corrispondeva 200 £. Di questo primo dolce freddo della nostra storia ne parla anche il pittore Inglese Edwar Lear nel suo diario del viaggio, dove descrive il tour che effettuò nel reggino fra Jonio e Tirreno in compagnia di un amico inglese, di un mulo e dal mulattiere, che fungeva anche da guida, di nome Ciccio. Durante questo avventuroso viaggio Lear veniva ospitato dai notabili dei paesi visitati e fra questi ci fu la famiglia Pannuti di Bagaladi che lo ospitò nel proprio palazzo, precisamente, il 30 Luglio 1847. In questa occasione, oltre a un lauto pranzo a base di maccheroni, uova, olive, burro e formaggio, alla fine venne servito un bicchiere di neve e vino “ a scirubetta”. 

 

‘MBRIACHEDDHI- Nella lingua italiana è il corbezzolo o anche chiamato albatro ed è il frutto di un cespuglio diffuso nei paesi del Mediterraneo. Questa pianta detta anche “ albero Italia”, durante il Risorgimento venne assunta a simbolo del tricolore e dell’unità nazionale. Pascoli nelle Odi recita: “ O verde albero italico, il tuo maggio è nella bruma : s’anche tutto muora, tu il giovane gonfalon selvaggio spiega alla bora”.                                    Il nome dialettale “’mbriacheddhi” è dovuto al suo colore ora rosso vivo, ora paonazzo proprio come il naso di colui che ha alzato il gomito.        Nel mese di Ottobre faceva la sua comparsa un vecchietto canuto che scendeva dalla montagna, precisamente da”Munti San Limitri”( monte San Demetrio) che domina tutta la vallata da Armo a Gallina, con un asino bianco. Dalla groppa del candido quadrupede, attaccati al basto( barda) sporgevano due grosse ceste “Cufuneddhi” cariche del prelibato frutto che l’attempato ometto, offriva ai passanti gridando per le vie del paese, per la gioia di noi ragazzi, ” ‘mbriacheddhi, cù ndi volu mi veni ccà deci , 10 liri”. Il frutto veniva venduto a numero e non a peso. I frutti rossi denotavano la giusta maturazione, ma il più delle volte l’arzillo vecchietto, secondo chi fosse il compratore, mescolava, a quelli maturi, frutti acerbi di colore verde-giallastro.   Questa pallina polposa in cucina si può impiegare per preparare marmellate o per fare l’aceto aromatizzato. Per la preparazione di tale condimento bastano una manciata di “’mbriacheddhi” quasi acerbi, 6 foglie di “lauro” (alloro) e 1 litro di aceto ,chiudendo il tutto in una bottiglia e lasciandolo riposare al buio in luogo asciutto e fresco per tre settimane.


ROSOLIO – Era il liquore delle nostre nonne ed era l’unica bevanda alcolica concessa alle signore e signorine nei secoli passati. Il suo nome pare derivi dal latino “ros solis”(rugiada del sole).                       Le sue origini risalgono agli inizi del 700, quando entrò in commercio lo zucchero raffinato. Inizialmente veniva preparato dalle suore nei conventi che lo servivano per accogliere ospiti importanti, in seguito è diventato il liquore delle famiglie e veniva offerto come segno di buono augurio nelle varie ricorrenze come battesimi, fidanzamenti e soprattutto nelle nascite e nei matrimoni.                     Il rosolio classico aveva un moderato tasso acolico compreso tra i 25 e 35 gradi ed era una soluzione liquorosa derivata dalla macerazione dei petali delle rose. Nella zona di Gallina, secondo la stagione si utilizzavano ora scorze di arancio, limoni e mandarino e in estate le more di gelso rosso o il finocchietto selvatico.                 Ricetta classica: 30 g di petali di rose, 1litro di acqua, 1 litro di alcol 45°, 500 g di zucchero 1 stecca di vaniglia.                                                     Il procedimento è lo stesso per ottenere i nuovi “rosoli”, il limoncello o il bergamino.                    Il rosolio nel corso della storia ha trovato ampio spazio nella letteratura: Le avventure di Pinocchio di Collodi, dove la Fata Turchina regala un confetto ripieno di rosolio al bambino di legno; oppure in Gianburrasca di Vamba dove per colpa di una ubriacatura di rosolio Giannino Stoppani e i suoi amici mettono a soqquadro una pasticceria; e ancora nel racconto di cronaca nera di Carlo Lucarelli “La Bottiglia di Rosolio”una signora anziana, Clotilde Fossati, viene uccisa con un colpo di bottiglia contenente il liquore in questione.     Nel campo cinematografico questo antico liquore lo ritroviamo nel capolavoro di Bernardo Bertolucci “Novecento” dove una affascinante Neve (Stefania Casini) lo offre a Olmo Dalcò (Gerard Depardieu) e ad Alfredo Berlinghieri (Robert De Niro); mentre Walt Disney scelse il nome di Rosolio per lo spasimante della maga Amelia .                              Nel campo medico nel 1866 in Sicilia il Barone Giuseppe Atenasio, di fronte agli insuccessi della medicina ufficiale inventò un liquore fatto con corteccia di China, che chiamò Rosolio di Cortice, e che gli permise di combattere il colera e far guarire così centinaia di persone.               Molti regnanti furono estimatori del prelibato liquore, fra questi l’Imperatore Francesco Giuseppe marito della famosa Principessa Sissi. Oggi una estimatrice del Rosolio è la Regina Elisabetta d’Inghilterra.

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