I LUOGHI DI UNA INFANZIA……QUASI PERFETTA

Quando la vita era semplice ma dura e la gente seguiva il ritmo regolare dei giorni e delle stagioni;

Quando tutti si conoscevano e non c’era la necessità di chiudere la porta con la chiave, non perché non c’era niente da portare via, ma perché c’era il rispetto e la riconoscenza dei sacrifici che una famiglia faceva per tirare avanti;

Quando nonostante i tempi duri la gente sorrideva sempre,

in quei tempi c’erano dei luoghi speciali che con nostalgia custodiamo nel nostro cuore e che ormai per restarneattaccati li possiamo solo pensare…di notte.

Come ognuno di noi, che ha superato abbondantemente il mezzo secolo di vita e che la propria infanzia l’ha passata fuori casa, per strada con gli amici a giocare fino a tarda sera e che con noi questi ricordi li voglia rinvangare, li vogliamo riportare alla memoria con queste poche righe, descrivendoli per non dimenticare i tempi che furono.

Tratteremo di luoghi mitici che ci hanno donato tanta felicità spensieratezza e divertimento. Tratteremo ru “ CALIPSU”, ru “SACRAMENTU”, ra “CARRUBBARA”, ru “LACCAREDDU” e ru “PALUMBARU”.

In questo primo scritto trattiamo del favoloso e versatile posto che era 

U’ CALIPSU

In questo luogo, tra l’attuale via Generale Forlenza e via Baracchelle, faceva bella mostra di se un albero di Eucalipto chiamato in dialetto reggino “Calipsu”( che non ha nulla da vedere con il calipso pianta della famiglia delle Orchidacee) . A tale pianta si deve infatti il nome del mitico posto degl’anni della nostra infanzia.

Oggi, a Gallina, è l’unico spazio rimasto libero di quel famoso “balcone sullo Stretto che nulla ha ad invidiare a Posillipo” da dove ancora si può godere di un magnifico panorama. Tutti gli affacci sulla città e sul mare, dal meraviglioso balcone Gallinese, “grazie” ad egoistiche persone incompetenti e di chi aveva l’obbligo di vigilare, sono scomparsi. L’incantevole scenario di cui si poteva godere che spazia da punta Faro alle falde dell’Etna, è stato cancellato dalla scellerata costruzione di mostri ecologici e relegato al ristretto spazio del “Calipsu” la possibilità di godere della fantastica visione dello stretto.

Nei tempi passati la zona era famosa in quanto, poco distante dall’albero, insisteva un’area abbastanza ampia conun importante dislivello, adibita a campo da calcio con al centro un grosso pino marittimo.

Nell’angolo di via Asprea dominava un albero di “sorba”(sorbole) i cui frutti non venivano raccolti, divenendo così, in autunno inoltrato, la nostra dispensa di zuccheri nelle interminabili partite.

Questo rettangolo di gioco è stato anche testimone di epiciincontri le cui gesta erano da fare invidia a quelle di Ulisse narrate nell’Odissea. In particolar modo, durante la festa di San Nicola e ogni 29 Giugno (festa di San Pietro e Paolo) s’invitavano le amatoriali squadre di calcio dei rioni vicini,quali per esempio Armo e Modena. LA singolar tenzone tra le avverse compagini si svolgeva normalmente nelle ore del tardo pomeriggio. In particolare durante la festività dei due santi che all’epoca era considerata giornata di festività Nazionale, due squadre, capitanate da Pietro Fortugno e Paolo Fortugno riuscivano a portare, all’imbrunire, tantissima gente ad assistere alla partita seduti sul muro a secco che costeggiava il rettangolo di gioco. Alla finedegl’incontri, vincitori, vinti e pubblico, accomunati da sincera amicizia, brindavano dandosi appuntamento al prossimo anno accompagnando sempre l’invito con l’immancabile frase “si Ddiu voli”.

Per noi ragazzi la lunga strada sterrata “ru calips” era il nostro parco giochi, l’eden dei divertimenti, il luogo di socializzazione e svago. Si giocava “e ciappi”  “ca rumbula” “ e nucciddhi”. Il posto era anche testimone delle nostre proditorie gesta ciclistiche. Le sgangherate bici, il più delle volte rattoppate alla meno peggio ci vedevano impegnati in spericolate acrobazie. Rimasta negli annali delle gesta delle due ruote, svoltesi in tale magico luogo, era l’impresa di affrontare a tutta velocità la curva del Calipso che il più delle volte ci vedeva finire con tutta la bici dentro “i sipalunari”( rovi di more selvatiche).

Quando, nei rari casi, il fatato spazio non era occupato da noi ragazzini e quando ancora più raramente, nel tempo libero concesso alle ragazze da parte delle Madri, veniva loro permesso di frequentarlo, queste si riunivano in gruppoe giocavano “o campanaru”. L’ormai tramontato del “campanaru” consisteva prima di tutto nel disegnare uno schema numerato le cui caselle variano da 1 a 6 o da 1 a 10.Il giocatore inizia a lanciare il sasso nella casella 1 cercando di farlo atterrare dentro il riquadro senza toccare i bordi e senza farlo rimbalzare fuori e saltellando su una gamba cerca di recuperarlo per poi lanciarlo nella successiva casella. Vince chi riesce a raggiungere l’ultima casella dello schema ed a sollevare la pietra sempre su una gamba. Si viene eliminati se non riesce a tenere su una gamba oppure nel lanciare il sasso finisce su una linea o salta fuori dalla casella.

Il segno dei tempi viene scandito dall’incedere della modernità con i suoi progressi (??!!) tecnologici e con la sua galoppante asocialità di persone e luoghi. Cosa sarebbe oggi un posto come ”U CALIPSU”. Sogniamo per un attimo che la cementificazione del posto non sia avvenuta e che il luogo sia ancora la magnifica sterrata degli anni settanta. Cosa vedremmo? Di sicuro non ragazzini intenti a scorazzare con le bici o giovincelli con le ginocchia sbucciate per le troppe cadute nè tanto meno gentili ragazze con i capelli legati a treccine intenti a giocare “O Campanaru”. Oggi vedremmo un triste posteggio d’inquinanti macchine; vedremmo uno di quei luoghi malfamati dove, al posto della ricercata felicità nel correre dietro ad un pallone, si ricercherebbe la spensieratezza in una dose di droga o di uno spinello; vedremmo una pletora d’inutili idioti che bivaccherebbe magari con una bottiglia di birra in mano, un paio di cuffiette nelle orecchie ed un cellulare in mano. La felicità che un posto quale il Calipso ci ha regalato, verrebbe oggi sfregiata da idioti comportamenti di bullismo di asocialità e di irriverente egoismo………..ed affaciandosi dal balcone sullo stretto un giovane, con un cellulare in mano, pensando di poter vedere tutto il mondo, non si accorgerebbe dell’immensa bellezza che ha sotto gli occhi.

Alla stesura del testo ha collaborato Giuseppe Moscato

CCHI M’AVITI FOCU

 

S’avvicina lentamente

Con incidere elegante

Ha l’aspetto trasognato

Malinconico ed assente

Non si sa da dove viene

Ne dove và (purtroppo si sà)

Chi mai sarà quell’uomo…. (di m……)

Addio al mondo

Ai ricordi del passato (che il fuoco distruggerà)

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Che mai più ritornerà (come prima)

Mentre Domenico Modugno nel testo originale della canzone Vecchio Frack descrive la dolcezza malinconica del personaggio, a noi, parafrasandolo, piacerebbe entrare nei meandri dell’animo umano, per scoprire cosa fa scaturire in questi novelli Nerone la voglia di distruzione nell’appiccare il fuoco sui monti. Apparentemente non si intravede nulla che li possa turbare, non solo nei casi incendiari, ma, crediamo, in nessun altro evento catastrofico di origine dolosa, poiché rimane impassibile ed indifferente di fronte alla tempesta che ha scaturito. Potremmo ravvisare meri diretti interessi economici (avere l’erba verde per il pascolo) o più semplicemente convenienze finanziarie (pagati da terzi per creare opportunità lavorative) ma qualunque sia la motivazione di fondo, ci troviamo, sicuramente, dinnanzi a soggetti senza anima, senza cuore, senza scrupoli, gente che al pari deimercenari sono disposti, per lo sporco denaro, a compromettere il futuro dei propri figli.

Ma loro non sanno o fanno finta di non sapere che chi “scherza cù focu prima o poi si bruscia”. Al più presto bisogna fermare la mano di questi criminali, trovare il modo di arginare questi disastri. Ne va la salvaguardia e l’incolumità delle persone, come hanno potuto constatare sulla propria pelle gli abitanti di Cardeto (due morti e un ferito), la gente di Mosorrofa (abitazione bruciata) ed anche quella di Armo, ove, proprio in quest’ultimo antico borgo, sono andati distrutti ettari di pini, bergamotteti e giardini privati.

Nella mente degli Armoti più anziani è ritornato alla mente il racconto dei propri avi, quando nel tardo pomeriggio del 6 Agosto 1924 mentre erano in corso i preparativi per la festa dell’Assunta del 15 Agosto, un violento incendio

distrusse parte del paese. La violenza di tale funesto evento fu tale da richiedere l’impiego dei pompieri della vicina Reggio Calabria e dei pompieri volontari del Comune di Gallina che per domarlo definitivamente impiegarono circa 10 ore. Per tale catastrofe ben 53 famiglie rimasero senza un tetto.

Il prof. Michelangelo Zema delegato CRI, del mandamento di Gallina, essendosi distinto nell’operazione di soccorso ed intervento, si meritò un encomio.

In tale frangente la maggior parte degli abitanti era riunita nei cortili, a recitare la preghiera delle Cento Croci.

Tale supplica, è un antico rito di origine bizantina, tra il sacro, profano e usanze che affondano la radice nella notte dei tempi e che si accompagna alla recita di cento Ave Maria e recita:

-si fa il segno della Croce e si declama :

Farzu nimicu lluntaniti/chi cca me anima no ndai chi mmi fai/oj esti ù jornu ra Biata Virgini Maria/ fazzu centu Cruci e centu Avi Maria.-

Si recita il Rosario ed ad ogni Ave Maria si fa il segno della Croce

Come recita il testo dell’invocazione sia il Segno della Croce che l’Ave Maria si doveva ripetere per cento volte

Poi ancora:

Pinsa, anima mia chi avivimu a moriri/ ndo chianu i Josafattu amu a jiri/e ù nimicu(ù riavulu) voli veniri cu nnui/ fermiti nemicu meu, no mi tentari/ pirchi fici centu cruci(si fa il segno della Croce) duranti a me vita ndo jornu rericatu a Virgini Maria (si fa il segno della Croce).

(Recita del Rosario, ripetendo le azioni sopra descritte)

Nel prendere atto di tali eventi drammatici tutt’altro che naturali e spontanei (alla barzelletta dell’autocombustione non ci crediamo), ci domandiamo, perché quando l’Uomo aveva rispetto e riverenza verso la Natura non c’era fuoco che riuscisse a distruggerla? Ed ancora ci poniamo il quesito, cosa penserà la gloriosa Madre Natura dell’ingrato Essere Umano quando subisce queste tragedie? Ogni tanto l’ambiente che abbiamo ereditato dai nostri avi ed al quale tanta considerazione hanno riservato nei secoli, una qualche ritorsione la mette in atto (alluvioni, esondazioni, valanghe), ma per favore non imprechiamo le divinità ma poniamoci la domanda su quali e quante responsabilità abbiamo nel facilitarne tali catastrofici (in)naturali avvenimenti.

Alla stesura del testo ha collaborato Giuseppe Moscato

Gallina
Mosorrofa
Armo – Puzzi

REGGIO CAPOLUOGO. NON ERA SOLO IL “PENNACCHIO”

Oggi i nostri giovani disconoscono cosa accadde a Reggio dal 14 Luglio 1970 al 16 Febbraio 1971, di contro sono ancora vividi nella mente dei reggini che hanno superato da qualche decennio il mezzo secolo, i giorni della protesta popolare per Reggio Capoluogo.
La rivolta di cui trattasi , storicizzata come la Rivolta di Reggio o Rivolta Boia chi Molla, la condusse il popolo, donne, uomini e ragazzi, che si ribellò al sopruso con ragioni antiche e innegabili. Dietro le barricate condussero la propria battaglia con le pietre, contro i mezzi blindati di Esercito e Polizia
Su questo avvenimento che segnò la Storia Reggina ,negli anni trascorsi, si è parlato e scritto tanto, noi vogliamo trattare l’argomento “Reggio capoluogo della Calabria” sotto il profilo storico-geografico-economico turistico, facendo dei lunghi passi a ritroso nel tempo per poi arrivare alla fine della seconda guerra mondiale, quando sorsero già le prime polemiche tra Reggio e Catanzaro.
Durante l’Impero Romano la città di Reggio Calabria fu’ dichiarata sede dei Correttori con giurisdizione sulla Lucania e sui Brutii, territorio corrispondente a quasi l’intera Basilicata e la Calabria odierna; più tardi divenne metropoli degli stessi Brutii.
Sotto i Bizantini con l’imperatore Leone VI° Il Filosofo, Reggio fu eletta capitale del primo”Tema” che comprendeva la Calabria e la Basilicata Occidentale. Il territorio comprendente la Calabria, la Puglia e la Basilicata era diviso in due parti dette “ Temi” e Reggio, come anzidetto, ne era la Capitale del primo .
Ancora più avanti nel tempo Filippo II° d’Aragona la proclamava capitale. Si giunge quindi al 1861, quando fu stabilito di ripartire lo Stato Italiano in Province. Furono scelte innanzitutto le città più popolose come capoluoghi provinciali, e solo successivamente fu fissata la circoscrizione provinciale di ciascuna provincia.
Non risulta, da nessun testo, che a quell’epoca qualche città con minore popolazione fosse insorta a reclamare per sé la designazione a capoluogo in relazione alla centralità topografica, in confronto di altre città più popolose . Se si dovesse tenere conto del punto geometrico da identificare sulla carta geografica al fine d individuarne il Capoluogo di Regione, allora Enna prevarrebbe su Palermo, Nuoro su Sassari, Benevento su Napoli e S.Eufemia Lametia su Reggio e Catanzaro.
In una relazione della Società Geografica Italiana, redatta nel 1910, Mario Baratta, nei riguardi di Reggio si esprimeva così “ Nonostante le scorrerie dei barbari, i terremoti del 1783 e 1908, la città e sempre risorta ed oggi è un centro di comunicazioni terrestri (ferrovie e autolinee) marittime di primissimo ordine”.
Si giunge quindi all’anno 1946, quando il Ministero degli Interni istituì una Commissione di studio per la riforma della legge comunale e provinciale per l’organizzazione e i compiti delle amministrazioni regionali, presieduta da S.E. Marazza. Dopo diversi mesi di duro lavoro la Commissione presentò una relazione del Consigliere di Stato dr. Berruti, che oltre alle indicazioni delle riforme da attuare, indicava Reggio capoluogo della Regione Calabria. A tale scelta si opposero gli uomini politici catanzaresi, facendosi forti dei 37 uffici regionali che insistevano a Catanzaro e del fatto che la città era sede della Corte d’Appello (trasferita nel 1594 a Seminara da Reggio distrutta dai barbari e da Seminara collocata a Catanzaro per necessità di porre gli uffici e gli archivi in luogo sicuro lontano dai saccheggi e invasioni).
Scriveva “Il Grido della Calabria” il 29 Ottobre 1947 :”Catanzaro per essere capoluogo dell’Ente Regione deve costruire, deve approntare uffici, gli appartamenti per i funzionari, insomma, quella struttura iniziale indispensabile che, è bene ripeterlo, Reggio possiede”.
Nella lunga diatriba sulla questione del capoluogo, il 1° Settembre 1948 il catanzarese Falcone Lucifero scriveva sul “ Il Progresso Calabrese”: “ L’ubicazione di Catanzaro è anacronistica, con le necessità della vita moderna, vita di traffici, di scambi, di facili accessi, in contatto con il mare e con le grandi vie di comunicazione; ebbene lasciamo da parte l’amore dei conterranei e domandiamoci obiettivamente: Catanzaro è in simili condizioni?”.
Reggio corrispondeva pienamente ai quesiti posti da Falcone; nel 1949 la città contava 146.019 abitanti (99.689 nel centro) la sua superficie era 23881 ha , le sue strade si sviluppavano per 80 Km.di coste ed era la diciottesima città d’Italia dopo Brescia e prima di Livorno, la quarta del Mezzogiorno. Il porto in quell’anno registrò 1547 arrivi e altrettante partenze. Nella città insistevano 12 Istituti di Credito, contro i 4 di Catanzaro e i 6 di Cosenza. Tantissimi erano gli uffici regionali, il più importante era il Compartimento ferroviario, che aveva una forza di 7.746 impiegati dei quali 3.100 residenti nel capoluogo .Anche le ditte iscritte alla Camera di Commercio al 31 Luglio 1949 erano superiori in Reggio Calabria rispetto Catanzaro e Cosenza, infatti Reggio ne contava 25.787 contri 14.917 dei primi e 19.056 dei secondi. Tra queste ben 130 ditte reggine svolgevano un largo giro d’affari in campo internazionale, in particolare esportavano i principali prodotti calabresi ( agrumi,pomodori, limoni, susine, uva etc;). In quel periodo l’industria del bergamotto occupava un ruolo di primissimo piano, il quantitativo medio del prodotto annualmente si aggirava intorno ai 160.000 Kg e quasi 150.000 Kg venivano esportati in Francia, Stati Uniti e Inghilterra. Accanto all’industria dell’essenze, c’erano le rinomate fabbriche di profumi tra cui la “Fiori del Sud”, “La Calabrisella”( forse l’unica esistente),”L’Alba” e “ L’Aurentia” che davano un apporto notevole all’economia locale. L’industria olearia era fiorente, nella provincia risultavano installati 1887 frantoi e venivano impiegate circa 7000 unità. Pure i mulini e i pastifici davano lavoro a molta gente la cui produzione era sufficiente ai bisogni locali, tanto che se ne esportavano fuori provincia prodotti finiti. Insistevano inoltre, sempre nel capoluogo, le industrie dolciarie e della marmellata( rinomata era la Locretta), quelle del freddo (17 fabbriche del ghiaccio), quelle per materiale da costruzioni( calce,gesso,laterizi), quelle del latte e dei suoi derivati, quelle per la fabbricazione dei salumi, e addirittura quelle chimiche( Laboratorio S.A.S.S.). Qualcuna di queste industrie ancora sopravvive, mentre sono scomparse le filande per la lavorazione della seta che sul finire degli anni quaranta si effettuava( eccetto una filanda che si trovava a Cosenza) solo a Reggio e nella sua provincia(Cannitello, Villa San Giovanni e Locri). La seta prodotta, ad un costo che si aggirava attorno alle 1750 lire al Kg, veniva destinata al mercato interno( Milano) ed in parte esportata. L’industria alberghiera era ottimamente attrezzata e Reggio vantava il “ Lido” più bello e attrezzato d’Italia meridionale. Infine esisteva, sempre nella città della Fata Morgana , la Stazione Sperimentale delle essenze e dei derivati degli agrumi, unica in Italia.
Il dubbio su chi dovesse essere il capoluogo della Regione Calabria, per la Prima Commissione permanente (Interni) della Camera dei Deputati, era inesistente, tanto da scrivere “ …le capitali come ci insegna la storia, debbono rispondere all’interesse generale di uno Stato, di una Regione, di una Provincia, Reggio era ed è la capitale calabrese, anche per la funzione plurisecolare e per destinazione trimillenaria”; proseguiva la relazione della Prima Commissione ”…è vero che l’ordinamento italiano non contempla una vera e propria gerarchia delle città e solo talune leggi, come quella comunale e provinciale, particolari facoltà amministrative, hanno maggiore e minore ampiezza in relazione al numero degli abitanti dei Comuni”.
Anche il sindaco d’allora Giuseppe Romeo scendeva in” campo” per perorare la causa: “ questa polemica è indubbiamente incresciosa, per il capoluogo della Regione, la città di Reggio è costretta ad intervenire in maniera aperta ed inequivocabile, non già per amore di vieto campanilismo, ma per difendere i propri diritti, battuti in breccia alla consorella Catanzaro attraverso una campagna stampa dir poco mortificante”.
La polemica tra Reggio e Catanzaro continuò anche agli inizi degli anni ’50.
Il 19 Gennaio 1950 ci fu una discussione alla Camera dei Deputati con relatore l’On. Domenico Spoleti, ma si concluse con nulla di fatto. Nei giorni seguenti, il 20 Gennaio, furono convocati a Reggio tutti i Sindaci della Provincia dal Prof. Tropea e ci fu un pubblico dibattito in Piazza Italia. Lo stesso fece la Giunta Comunale il 21 Gennaio, che presieduta dall’assessore anziano Cav. Vitrioli deliberò di presentare le dimissioni con effetto dal giorno in cui la Commissione degli Affari Interni dovesse deliberare o comunque proporre Catanzaro Capoluogo.
Ma per dare ufficialmente il capoluogo alla Regione passarono altri venti anni dall’ultima importante discussione alla Camera dei Deputati e ben ventidue da quando il 1° Gennaio 1948 la Costituzione ne previde le Regioni.
Ma tutti i politici che si susseguirono fecero come Penelope che faceva e disfaceva la tela, per poi giungere al 16 Luglio 1970 con il famoso “pacchetto” d’interventi economici per la Calabria. l’On. Colombo annunciava che Catanzaro era stato designato capoluogo della Regione Calabria. Ad orientare il Governo su questa scelta influi’ anche la sede della Corte d’Appello che insisteva a Catanzaro. Qualcuno in quel periodo ha così commentato:” Giustificazione formale, quasi che i processi rappresentino l’anima di una città”.
Già due giorni prima in città iniziarono le manifestazioni di protesta con la partecipazione di migliaia di persone tutti i ceti sociali senza distinzione di sesso, e nacquero ovunque i comitati per Reggio Capoluogo.
Dopo la decisione del Governo iniziò una vera e propria guerriglia contro le forze dell’ordine , e si ebbero le prime vittime e centinaia di feriti.
Di tutti gli eventi che ne seguirono ne è zeppa la bibliografia Nazionale, noi vogliamo concludere con un profetico giudizio di un foglio locale del 17 Settembre 1949 che pubblicava sotto il titolo” Cecità della classe dirigente” e recitava : “ Quando le cose sono giuste i cittadini di Reggio Calabria non temono i moschetti e la galera” e poi proseguiva testualmente “ …..siamo perfettamente convinti che il Prefetto, già messo al corrente a mezzo dei suoi organi, dell’esplosione, che potrebbe definirsi rivolta, avrà già informato il Governo Centrale. Spetta al Governo evitare le lotte fratricide tra popolo e polizia, intervenendo energicamente”. Impressionante profezia se rapportata a quanto accadde nel 1970. L’attualità dei giudizi espressi a distanza di poco più di due decenni e non recepiti da una classe politica disattenta , ritardataria e poco lungimirante, solo adesso ne palesano i danni provocati dalla mancata designazione a Capoluogo Regionale. Si perché il “ Pennacchio” che non sventola sulla nostra città ha fatto si che si concretizzasse negli anni una vera e propria spoliazione di Compartimenti vedi Ferrovie dello Stato e Poste e Telecomunicazioni; Uffici,come quelli Doganali e delle Opere Marittime, Il Distretto Militare, il declassamento e la chiusura parziale dell’Aeroporto e la soppressione dei treni a lunga percorrenza e non ultima l’Agenzia dei Beni Confiscati che ha preso la via di Roma.
Allo stato attuale, come per i secoli trascorsi, ci rimangono le bellezze naturali, con la speranza che Qualcuno più in alto, vista l’inettitudine del popolo reggino e sopratutto della propria classe dirigente, non tolga la Sua protezione e allora, come recitava un titolo di un famoso film,……. “ NON CI RESTA CHE PIANGERE”.

 
 

LA SCUOLA……DI NONNA MARIA

PALESTRA DI EDUCAZIONE

La scuola fu fondata dai Sumeri (Etnia originaria della Mesopotania meridionale, odierno Iraq Sud-orientale) nel 3500 a.C. . La sua istituzione avvenne successivamente all’invenzione della scrittura e si chiamava “Edubba” che tradotto significa ”casa delle tavolette” in quanto sia gli insegnanti che gli allievi scrivevano su tavolette d’argilla umide e poi essiccate al sole. 

Lo scopo della scuola, sinteticamente, è mirato all’istruzione e all’educazione (sia in senso interpersonale che di rispetto del vivere civile) dello studente.

Come consuetudine della maggior parte dei nostri scritti vogliamo soffermare la nostra attenzione sulla scuola dei nostri progenitori sia dal punto di vista strutturale-logistico, da quello educativo che storiografico.

Partiamo dall’assetto strutturale/logistico/organizzativo costituente le scuole dell’epoca. 

Le aule dei nostri avi, per la maggior parte, erano molto spaziose e nelle pareti, oltre al Crocefisso alla foto del Re , campeggiavano due grande cartine geografiche. Le classi erano formate da 40/50 e anche più, alunni, rigorosamente divisi tra maschi e femmine.

I banchi non erano singoli bensì “a seduta multipla”. Addirittura per un certo periodo le lunghe panche potevano ospitare anche sei alunni l’uno accanto all’altro, infatti la struttura del banco era costituita da un pezzo unico con la seduta collegata a tutto il resto, successivamente arrivarono i banchi biposto.

Sul ripiano del banco ad una certa distanza (solitamente sul lato destro in alto) c’era un buco dove veniva allocato il vasetto contenente l’inchiostro, che serviva per bagnare il pennino per poter scrivere. L’inchiostro usato per vergare era di non immediata assorbibilità e quindi si rendevanecessario l’uso di carta assorbente, da appoggiare sulla pagina del quaderno appena stilata, con lo scopo di facilitare l’immediata asciugatura dell’inchiostro.

La lavagna non era attaccata al muro ma poggiata su cavalletti di legno e la cattedra era posta su una pedana di legno cosìcchè il maestro/a poteva avere una migliore visione della classe.

Nell’aula la maestra/o era una sola ed insegnava tutte le materie e addirittura un maestro/a faceva più classi. All’epoca, visto la numerosità degli alunni, dovuta anche dalla promiscuità di età che vi era nella stessa sala si rendeva necessaria una didattica separata, sempre nel medesimo ambiente (in questo aspetto “necessitanti osservatori” del metodo Montessori “che prevede la costruzione di classi aperte o comunicanti in cui bambini di diverse età possono interagire tra di loro, per fasce d’età”). C’era la fila della prima, della seconda e così di seguito e quindi le lezioni erano diverse a seconda delle file d’appartenenza. A coordinare le attività del plesso scolastico c’era il Direttore. 

L’uso del “vantali”( grembiule) era obbligatorio. Questopoteva essere blu o nero (ad eccezione dei bambini dell’asilo che era di colore bianco) con un fiocco bianco,nei primi tempi, per poi essere rimpiazzato da fiocchi di diverso colore a seconda della classe che si frequentava. Il colore scuro di questa “divisa” era motivato, oltre dall’encomiabile necessità di essere abbigliati in maniera uguale per non creare discriminazioni tra chi poteva permettersi vestiti più o meno “eleganti”, anche dall’aspetto pratico di camuffare le macchie d’inchiostro. A quell’epoca c’era l’abitudine di nominare un capoclasse il quale aveva la responsabilità della pulizia dell’aula e di mettere in fila i compagni quando si entrava e si usciva dall’edificio.

Il primo giorno di scuola era fissato sempre il 1° Ottobre e tutti gli scolari si recavano a piedi anche se la distanza era notevole. La prima attività eseguita quotidianamente era il controllo igienico, ovvero l’insegnante verificava la pulizia delle mani, del viso e della testa. Tale ispezione, molta scrupolosa, rivestiva un importante ruolo perché, all’epoca di cui trattasi, era molta diffusa la “scabbia”(infezione della pelle legata alla scarsa pulizia) ed i pidocchi proliferavano. Questi minuscoli insetti trovavano habitat favorevole sul cuoio capelluto ove anche si riproduconograzie al deposito delle uova dette” lindini” (oggi purtroppo ancora presenti) sullo stesso. Non esistendo prodotti specifici per debellare questi parassiti si facevano dei lavaggi con aceto caldo e petrolio oppure con olio d’oliva che svolgeva un’azione simile ai primi prodotti. Con un pettine a denti stretti si pettinavano i capelli e cosìfacendo si facilitava l’estirpazione sia degli insetti che delle uova. Altro rimedio delle nonne era quello di preparare l’infuso di rosmarino, distribuirlo sulla testa dopo aver massaggiato lasciandolo agire per circa 10 minuti ed infine risciacquandolo anche con l’ausilio del pettinino. 

Passando all’aspetto didattico risalta subito la semplicità dei relativi strumenti (imparagonabili con quelli moderni) utilizzati per divulgare l’apprendimento  e della metodica  della didattica.

Si studiava con soli due libri, il Sillabario per imparare a leggere e scrivere, e il Sussidiaro che conteneva nozioni di matematica, geografia, storia e scienze. Tra le altre attività c’erano la bella scrittura e soprattutto educazione morale e civile (…..che errore aver abbandonato quest’ultima!!!). L’ora di religione che da calendario era fissata il lunedì, eraprerogativa del parroco del paese. Inoltre c’era l’ora di Economia Domestica, nelle quali le ragazze imparavano a ricamare, lavorare ai ferri, all’uncinetto, a stirare ecc;. I ragazzi invece armeggiavano seghetti, cacciaviti, pialle nell’ora di Applicazione Tecnica.

 

Gli scolari della prima classe prima di scrivere con l’inchiostro usavano il “lapis” (matita). Era obbligatorio scrivere con la mano destra mentre lo scrivere con la mano sinistra era considerato un “difetto” da correggere assolutamente anche attraverso mezzi di coercizione fisica.

L’insegnante correggeva i compiti usando “ù lapis”, una matita metà blu e metà rossa. Con il primo colore sottolineava gli errori lievi, mentre con il secondo gli”orrori” ovvero quelli più gravi.

Le pagelle venivano consegnate ogni tre mesi direttamente nelle mani dei genitori.

Nonostante i numerosi alunni nella scuola il silenzio e l’ordine regnava sovrano e si percepiva una sensazione che incuteva timore e rispetto.

La scuola dei nostri avi era molto rigida e i bambini venivano educati con maggiore severità (in barba al metodo Montessori che prevedeva meno coercizione e più libertà di agire e scegliere da parte dei discenti), tanto che ogni insegnante possedeva una “virga”(bacchetta di legno) che serviva per colpire i palmi delle mani, ad ogni segno di distrazione, ribellione o indisciplina. Altre punizioni consistevano nel mandare dietro la lavagna l’alunno reo di qualche mancanza lieve per una decina di minuti; se invece l’infrazione era grave allora lo si faceva inginocchiare su dei legumi secchi, in genere ceci, sparsi nell’angolo della stanza più vicino alla cattedra.

La severità dei genitori era tale, che quando il figlio si lamentava dicendo” a maestra mi minau nà virgata nde mani”( la maestra mi ha dato una bacchettata nelle mani) la risposta era secca” vordiri chi ta meritasti, pocu ti ndi ressi”( Te la sei meritata anzi di doveva dare più bacchettate).

Se poi uno scolaro non andava bene a scuola o il genitore veniva chiamato a presentarsi poiché aveva compiuto qualche monelleria, questi gli dava “ddui maschiatuni”(due schiaffoni) davanti ai suoi compagni di classe come monito.

Tali metodi severi, invisi sicuramente al Metodo Montessori, seppur nella loro ruvidezza e “sadicità” che nella didattica moderna per fortuna (anzi forse in alcuni casi …purtroppo) non albergano più, avevano il pregio di riverberare rispetto non solo tra alunno e maestro ma anche tra genitori ed insegnati e soprattutto tra gli scolari stessi. Gli studenti rispettavano il ruolo del maestro e di questi ne temevano la relativa autorità (anche se più che autorità sarebbe stato meglio profondere autorevolezza). Nessun genitore all’epoca si sognava di mettersi contro un Maestro anzi ne avallava le decisioni, diversamente da oggi ove un insegnante si deve ben guardare da come tratta lo studente per non urtare la suscettibilità dei “moderni” genitori. Infine il metodo usato dai docenti dell’epoca seppur discutibile sotto l’aspetto della “ruvidezza” e coercizione fisica, ha avuto il pregio di mantenere lontano la nefandezza di quell’atteggiamento spavaldo di alcuni alunni che oggi va sotto il nome di “bullismo scolastico”. Oggi l’istitutore, con la sua mancanza di autorevolezza, (in molti casi correo, con il suo atteggiamento lassista, dei bulletti) instilla, in alcuni alunni, quel senso di superiorità non solo verso se stesso ma anche e soprattutto verso i coetanei dei “sbruffoncelli” creando problemi di sviluppo psicologico che in alcuni casi sfociano, nei soggetti dal debole carattere, addirittura nel suicidio. Oltre che pensare solo ai massimi sistemi, forse sarebbe il caso che chi ha le responsabilità nel settore si preoccupasse anche di tali piccoli ed apparentemente “infimi” problemi che però hanno un grande impatto in pochi deboli soggetti. Che si preparino i docenti anche a sapersi raffrontare con tali situazioni ed anche senza l’uso materiale della “virga”, riescano ad essere autorevoli facendo indossare “virtualmente” nuovamente il grembiule a tutti gli alunni. Suggeriamo inoltre, sommessamente, che facciano buon uso dei nove “comandamenti del buon insegnate” che riportiamo a fondo pagina. Vogliamo chiudere questa breve digressione con una massima di Piero Angela

“Cosa ce ne facciamo dei ragazzi che prendono 10,9,8 a scuola se non sono in grado di intervenire quando viene fatto del male ad un compagno, quando hanno delle prestazioni eccezionali ma non hanno strumenti per aiutare un loro amico e riconoscere un bisogno”,

 

Sotto l’aspetto storiografico facciamo un breve excursus concentrandoci, come nostro solito, anche su quella che è stata la situazione scolastica sul nostro territorio.

La storia ci dice che per poter parlare d’istruzione scolastica pubblica dobbiamo risalire al 1859 quando nel Regno di Sardegna (Re Vittorio Emanuele II°) venne emanato il cosiddetto Decreto Gabrio Casati, allora Ministro della Pubblica Istruzione il cui principio informatore venne fatto proprio dallo Stato Unitario. Con tale Decreto l’istruzione poteva essere impartita sia dai Comuni che dai privati e perciò, come tutte le istituzioni,anche la scuola divenne un affare Comunale (il 4 Giugno 1911 la legge Daneo-Credaro tolse tale gestione, poiché non riuscivano a fronteggiare le spese per il mantenimento delle scuole elementari). Il Consiglio Comunale nominava gli insegnanti che avevano un contratto a termine, i bidelli e il direttore didattico. L’Amministrazione a sua volta doveva dare conto alla Regia Direzione Scolastica.

Anche il Comune di Gallina fu investito di tale importante compito essendo quindi obbligato ad attuare, con grande sforzo economico, tutte le disposizioni emanate dalla Regia Direzione Scolastica. Tra le altre dovette dar seguito anche ad un ordine del 1878 quando una Circolare Prefettizia obbligò di aprire delle scuole in ogni frazione o borgata “che abbia 50 fanciulli da istruire”.

Così nel 1883 in tutto il circondario c’erano sei scuole così ripartite: 1 classe Oliveto, Immacolata, Armo e San Gregorio , invece 2 erano a Ravagnese e Gallina (1 maschile e 1 femminile), poi nel 1884 su iniziativa dell’Amministrazione ne fu aggiunta una settima con sede ad Arangea il cui incarico fu dato alla maestra Filomena De Agazio Martorelli.

Lo stipendio annuo per gli insegnanti di Gallina e Ravagnese era di 550 lire, mentre per gli altri era di 250 lire.

Con l’avvento del 1900 nel Comune di Gallina si contavano nove scuole Ravagnese (2 classi), Cugliari, San Gregorio, Arangea, Carroni, Saracinello, Croce, Armo e Gallina (2classi).

L’8 Luglio 1904 su proposta della Regia Direzione Scolastica vennero istituite le scuole serali e grazie a questa istituzione e all’impegno del maestro Vincenzo Cento la borgata Armo, che era abitata da agricoltori, non ebbe analfabeti (In Italia Meridionale era il 56% della popolazione). Per tale meritoria opera all’illustre educatore il 5 Maggio 1905 gli venne conferito dal Ministero della Pubblica Amministrazione il Diploma di Benemerenza di II classe, con la facoltà di fregiarsi della medaglia d’argento.

Quando il 28 Dicembre 1908 ci fu il catastrofico terremoto, le scuole vennero chiuse per un anno, il tempo di costruire le baracche/scuole a Gallina , Armo e Arangea. Nelle borgate Ravagnese, San Gregorio e Croce Valanidi il Comitato della Croce Rossa Svizzera aveva realizzato tre tendoni, ad uso pubblica utilità, che funzionarono da scuola.

Le scuole nel periodo 1° Ottobre al 30 Aprile seguivano il seguente orario dalle 8,30 alle 13,30 mentre dal 1° Maggio fino al termine dell’anno scolastico dalle ore 7,30 alle ore 12,30, con quaranta minuti d’intervallo.

i nove comandamenti del buon insegnante “del Pedagogo, Filosofo Teologo tedesco Bernhard Bueb:

Nessun bambino è perduto se ha un insegnante che crede in lui.

1) Conoscere se stessi

2) Accettare l’idea che le persone abbiano bisogno di una guida

3) Essere un esempio

4) Darsi obiettivi chiari

5) Onesti e raggiungibili

6) Essere critici verso di sé

7) Imparare a delegare

8) Mantenere la calma

9) Impostare la propria attività scolastica in base a questi principi senza aspettare l’intervento della politica.

Alla  stesura del testo ha collaborato Giuseppe Moscato

Classe scuola elementare Gallina
Classe scuola elementare Armo

L’UOMO CHE MALTRATTA LA DONNA…….APPARTIENE AL GENERE ANIMALE!!!!!!

Dogmi religiosi, ataviche usanze, primordiali istinti, bassi convincimenti, troglodite teorie, nelle diverse società, fin dai tempi antichi, hanno relegato la donna ad un ruolo subalterno all’uomo ed Ella supinamente ha sopportato ogni genere di sopruso. Purtroppo ancora oggi il credo religioso  ( a cui si deve massimo rispetto di qualunque natura esso sia) che travalica il trascendente e che dovrebbe rimanere chiuso in tale ambito senza interferire nelle scelte della vita terrena, influenza il modo di agire sia politico che sociale  e, continuando a considerare la Donna essere subalterno all’uomo, reitera l’abominevole fallace convincimento che ad Ella non possa essere riconosciuta pari dignità.

I nostri avi condividevano l’idea di subalternità della Donna tanto che un detto recitava “All’omo a scupetta  e a fimmina a cazzetta, per indicare la netta distinzione dei ruoli dove all’uomo competeva l’obbligo del sostentamento della Famiglia mentre alla Donna quello delle faccende domestiche. Per fortuna nell’era contemporanea, nella maggior parte delle Nazioni, alla Donna viene riconosciuto il giusto ruolo ed ad Ella competono gli stessi diritti ed i medesimi doveri della Sua “metà “.

Richiamando nuovamente i nostri antenati, (ai quali comunque rimaniamo affettivamente e  culturalmente legati pur in alcune errate convinzioni, come quelle sopra riportate, frutto dei tempi)  un loro detto recitava “A Fimmina faci e a fimminasfaci a casa” per riconoscere alla Donna un ruolo attivo sia nella vita domestica ma anche, attraverso un’interpretazione estensiva che a noi piace dare al detto, nelle determinazioni della società civile.

Agli inizi del secolo scorso un certo Nicolosi, un fiero denigratore dei meridionali, dopo aver conosciuto la bellezza delle ragazze di Bagnara e Scilla non poté fare a meno di descrivere la  propria ammirazione per le donne residenti nel luogo dove la mitologia collocava la sede delle Sirene.

Il suo pentimento lo espresse raccogliendo  lo stato d’animo degli abitanti del luogo che cosi si esprimevano nei confronti delle loro compaesane:

Bruna, brunetta comù na castagna

Sanizza e china comu na pigna

Hai l’occhi niri e capiddhi rizzi

Vali cchiù na brunetta sapurita

Ca ‘na jancuzza cu robba e dinari

Pi la jancuzza nci pizzu la vita

Ma la brunetta la pozzu prijari.

E ancora:

Quandu tu nascisti 

Avivi li billizzi di Sant’Anna

L’occhi e i gigghia di Santa Lucia

A’ facci di una rosa spampinata

Eri un garofulu jurutu d’ogni tempu.

Concludeva:

Si fussi ù pinnellu l’arma mia

Bella ti culuravu pi ogni latu

Dopu culurata, jeu ti adureria

Avanti ai li to peri ‘nginocchiatu.

 Lo scrittore e giurista romano  Aulo Gellio,scriveva a proposito delle donne:

Malum est mulier sed necessarium malum”- La moglie è un male, ma un male necessario.  

A noi piace chiudere questo elogio allo Splendido Gentil Sesso non prima di aver chiesto scusa per tutto il male che l’uomo Le ha fatto nel corso dei secoli, parafrasando questa definizione dicendo

LA DONNA È UN BENE ED UN BENE NECESSARIO

VIVA LE DONNE

 

Alla stesura di questo scritto ha collaborato Giuseppe Moscato

Appunti sulla nuova Toponomastica Gallinese 

Seconda Parte 

 

Nella prima parte relativo all’argomento di cui trattasi pubblicato sempre sulle pagine del nostro Blog “IL Volo del Falco” ci siamo soffermati sull’azione svolta dalla Commissione Toponomastica del Comune in merito alla variazione dei toponimi di alcune vie di Gallina soffermandoci in particolare su ciò che l’organo preposto avesse deciso in merito e quale fosse la nostra opinione sulle nuove denominazioni. In questa seconda parte vogliamo rivolgerci a quella che potrebbe essere una futura nuova Commissione Toponomastica, cercando di “segnalare” alcune integrazioni, modifiche o nuove denominazioni che ben s’innestano nel contesto urbanistico Gallinese avendo, le relative personalità, dato lustro decoro e rinomanza alla nostra benamata Comunità. 

Prima di addentrarci nella tematica specifica ci preme evidenziare che sarebbe cosa utile e gradita a tutta la popolazione che le nuove denominazioni trovassero allocazione, oltre che nei burocratici registri( cosa che ancora non è avvenuta) , anche nel posto più ovvio ovvero nelle relative sedi stradali. Tale banale considerazione sarebbe necessario trovasse pratico riscontro per svariati motivi:

-per rendere edotta anche visivamente e non solo “burocraticamente”, la popolazione delle volte ne viene a conoscenza casualmente;

– per questioni pratiche, pensate ai corrieri che debbono effettuare consegne che si ritrovano nelle missive le nuove denominazioni e nella cartellonistica identificativa la via, quella vecchia;

– per i più curiosi per poterne approfondire i motivi per cui una determinata personalità, luogo o data sia stata considerata degna di tale riconoscimento.

Entrando nello specifico del tema che ci apprestiamo a trattare, tra le prime personalità che ci sentiamo in dovere di segnalare e che hanno dato risalto alla nostra cittadina ci vengono subito in mente due nomi:

 

 

 

Giuseppe Moscato e Giuseppe Marino. 

Anche se ai due noti personaggi è stata già riservata una certa attenzione ci sentiamo di dire che non è sufficiente a metterne in risalto la personalità degl’illustri Gallinesi. 

Intitolare la già Piazza Carcere al Dott. Giuseppe Marino, pensiamo sia stato molto riduttivo. “U’ Dutturi” come veniva chiamato amichevolmente, ha dato lustro non solo alla nostra Comunità ma anche ben oltre i nostri limitati confini assurgendo a personalità d’interesse Nazionale non solo nel proprio campo professionale, Psichiatra e Direttore dell’Ospedale Psichiatrico, dove spiccava per competenza e creatività nell’affrontare e risolvere le tante problematiche che nel corso della sua vita gli si sono presentati ma anche in attività apparentemente distanti dalla propria professione quali Giornalista, Poeta, Scrittore, Attore, Sceneggiatore e soprattutto Educatore. 

Come Direttore dell’Ospedale Psichiatrico prima ancora dell’emissione delle leggi in questo campo ,il dott. Marino aveva aperto i cancelli della struttura sanitaria, ridando una vita ai pazienti ricoverati facendoli partecipare a varie attività. Indimenticabile la giornata quando al Teatro Comunale Cilea li fece recitare nella “Passione di Cristo”.  

Per tali motivi chiediamo che venga dato ulteriore lustro al Dr Marino intitolando una delle Vie principali di Gallina unitamente all’intitolazione della già Piazza Carceri. 

 

A Giuseppe Moscato, come  al “ Dutturi”, è stata riservata una certa attenzione dalle istituzione intitolandogli l’Istituto Comprensivo Gallinese. Anche qui però ci sentiamo di richiedere ulteriore considerazione per il noto Giornalista Gallinese attraverso l’intitolazione di una delle vie principali di Gallina. “Peppino”, come veniva chiamato dai parenti e dagli Amici,  con il suo garbo la sua professionalità e la sua riservatezza divenne nel corso degli anni un’apprezzata personalità di spicco all’interno del Comune di Reggio Calabria, ove, tra l’altro ricoprì per tanti anni la funzione di Capo Gabinetto di diversi Sindaci e Commissari Prefettizi,  ed essere stato Capo Ufficio Stampa dello stesso Comune . Ma la poliedrica personalità di Giuseppe Moscato si esplicava soprattutto in campo letterario in qualità di scrittore storico. Numerose e molto apprezzate sono state le opere letterarie tra le quali spiccano le raccolte di proverbi Reggini Ambatula chi nci frischi, Proverbi ru foculari, od anche le opere letterarie “ecclesiastiche” quali i Pontefici Calabresi, Le Divinità dell’Antica Reggio, Vescovi di Reggio sugli altari ecc ecc. Tante altre sono le opere che ci ha lasciato il nostro amato concittadino e che hanno ricevuto attestati di stima anche oltre i confini Nazionali quali “Le Scuole della Magna Grecia” che gli è valsa l’attenzione del Governo Greco. 

Se il diniego ad intitolare  una via nel nostro popoloso quartiere è legata  al fatto che l’istituto comprensivo è intitolato a suo nome, allora ci viene spontaneo chiedere, perché esiste Corso Garibaldi e Piazza Garibaldi? 

 

La comunità di Gallina ha dato i natali a diverse personalità distintesi per vari motivi in tanti altri campi e/o situazioni dando esempio di virtù e conoscenza per l’intera popolazione e che quindi come tali meritano di essere degnamente ricordati.  

Perché non ricordare il Prof. Domenico Taverriti, docente all’Istituto Piria e primo Assessore alle Finanze del Comune di Reggio Calabria dell’immediato dopoguerra.  Unitamente al fratello Luigi principe del foro reggino. Tale segnalazione è supportata, non foss’altro, anche dal fatto che il nipote che ha ereditato  i loro beni ha concesso gratuitamente all’Amministrazione Comunale unitamente alle Signore Furina una considerevole porzione di terreno, per realizzare la nuova arteria che unisce la già via Baraccone con via Sacramento e sbocca nella via Provinciale oggi via Giuseppe Marino-Agente Polizia Municipale( Assassinato). 

Se poi vogliamo tornare a ritroso nel tempo perché non ricordare Luigi Amato  Matr. 5271 Medaglia d’Argento al valor militare e vitalizio di Lire 100 con questa motivazione” per aver cooperato sotto il fuoco nemico, nel momento della ritirata a salvare due pezzi d’artiglieria”. La battaglia fu quella di Custoza che diede inizio(20 Giugno 1866) alle manovre della III guerra d’Indipendenza ,che vide soccombere le truppe italiane agli ordini del Generale La Marmora. 

Poi ci sono i caduti della prima guerra mondiale come la guardia di finanza Sebastiano Plutino di Agostino classe 1895 deceduto in combattimento nella terza Battaglia dell’Isonzo il 4 Novembre 1915 .

Perché non ricordare Fortunato “Tito” Caccamo il carabiniere medaglia d’oro al valor militare alla memoria, nato a Gallina  il 25 Gennaio 1923, che arruolatosi volontario nell’arma dei carabiniere dopo l’armistizio dell’8 Settembre 1943 partecipò alla difesa di Roma e dal 10 Ottobre successivo, giorno dell’evacuazione dei suoi commilitoni, fuggi unendosi alla formazione composta da carabinieri al comando del Generale di brigata Filippo Caruso.

Con il nome di battaglia “Tito” tenne i collegamenti tra gli uomini guidati da Giuseppe Cordero di Montezemolo e la formazione comandata da Lazzarino Desay e Costanzo Ebat.

Il 7 Aprile 1944 venne catturato nella Capitale  in piazza Bologna dalle SS tedesche a seguito di una denuncia anonima. Arrestato venne torturato, processato il 9 Maggio dello stesso anno dal tribunale  di guerra tedesco,venne condannato a morte e fucilato il 3 Giugno all’alba della ritirata dei soldati di Hitler da Roma.

 

Così bisognerebbe rendere onore al giovane Demetrio Fortugno che partecipò volontario alla seconda guerra mondiale e risultò disperso in Russia. 

Un altro eroe della prima guerra mondiale fu il Gallinese doc, il tenente degli Arditi Silvio Tripepi, che fu decorato  sul campo con la Medaglia d’Argento al valor Militare e il Comune di Sergaglia della Battaglia(TV) gli conferì la cittadinanza onoraria con questa motivazione” Al carissimo figlio che primo entrò fra le sue mura fugando l’invasore”. 

Se è vero, com’è vero, che bisogna ricordare affinchè la memoria non venga dispersa è ancora più vero che se la stessa viene supportata da tangibili contesti quale può essere l’intitolazione di vie piazze o luoghi esse ne viene ancora più rafforzata e le figure richiamate ne vengono doverosamente esaltate e rinvigorite. 

 

Alla stesura del testo ha collaborato Giuseppe Moscato.

Settimanale fondato dal Dottor Giuseppe Marino

A’ PETRA

(La Pietra)

 

La pietra(à petra), questa  semplice parola composta da 6 lettere, identifica uno dei materiali che hanno caratterizzato e segnato la vita dell’uomo fin dai primordi. Infatti la nascita e lo sviluppo dei primi ominidi si fa risalire alla cosiddetta “età della pietra”  (periodo in cui l’uomo non conosceva i metalli e da essa ricavava tutto ciò che serviva alla sopravvivenza).

La pietra nella terminologia commerciale è una roccia,oggi ne  sono noti  circa 4000 tipi e sono il risultato di diversi processi chimici e fisici che si sono verificati in tutte le epoche geologiche.

Nel dialetto reggino, le pietre usate per le costruzioni venivano appellate, dai nostri avi, in vari modi:

 

Mazzacani = pietre grosse dimensioni

Pracali = pietra media dimensioni

Strumbuli = pietra la cui dimensione è come un’ananas

Pignoletti = pietra la cui dimensioni è come un’arancia

Molis = pietra di origine arenaria formata di sabbia compatta

Straci = piccoli pezzi di tegole ,mattoni e piastrelle

Petra Mola = Cote in italiano che è la pietra naturale per affilare le lame

 

Nel nostro linguaggio dialettale li differenziamo in “petri vive”( quelle che emettono un suono particolare quando la mazza di ferro cozza contro di loro) e “ petri morti”( sono quelle arenarie).

Il minerale che stiamo trattando, nei tempi che furono, ha rivestito un ruolo di primaria quanto fondamentale importanza riguardo le varie costruzioni di palazzi, castelli, muri e strade. In merito a quest’ultima utilizzazione, il materiale di cui trattasi, durante il periodo Romano, ha ricoperto un ruolo preminente nella realizzazione di bando vie di comunicazione, rendendole indistruttibili , vedi  via Aurelia, Cassia, Flaminia,Salaria e Tiburtina. Gli “ architetti” romani  nel progettare tali infrastrutture, non lesinavano sulla quantità dei materiali da utilizzare (al contrario di oggi e lo stato delle nostre strade ne è l’emblematica dimostrazione)  così come dimostra la stratificazione delle stesse, ognuna di esse composta da quattro strati:

Il primo detto “Statumen” dove si mettevano delle pietre piatte alte almeno 30cm;

Il secondo strato detto “Redentario” costituito da pietre tonde legate con calce;

Il terzo strato detto” Nuclues” costituito da ghiaia livellata;

Il quarto strato chiamato “ Pavimentum” costituito da grosse pietre basaltiche.

Anche nelle nostre poche strade, non esistendo il bitume,   venivano utilizzate le pietre per la loro costruzione. Esse venivano differenziate tra quelle in terra battuta, chiamate “ ‘mpetrati”( il livello architettonico non era  quello dei romani) o “‘nciappata” se c’era una lieve salita.

 

“A petra” la troviamo non solo sotto il punto di vista materiale ma la ritroviamo anche protagonista di alcuni modi di dire del nostro dialetto (a dimostrazione della sua estrema versatilità)  come:

 

Tira a petra e mmuccia a manu(Tira la pietra e nasconde la mano)-Fare un’azione non gradita e fare finta di nulla.

 

Pari chi mangiai petri ( Sembra che abbia mangiato pietre)- Avere cattiva digestione.

 

Quandu a petra sura, cuccia a criatura(Quando la pietra suda copri la neonata)-Anche con il caldo torrido è sempre consigliato tenere coperti i neonati.

 

Mi cacciai à petra rà scarpa ( Mi sono tolto il sassolino dalla scarpa) – Rendere pan per focaccia ovvero Ricambiare un torto. 

 

Si mangia puri i petri (Si mangia anche le pietre) –  Persona  che mangia con grande avidità e ingordigia.

 

Restai mpetratu ( sono rimasto impietrito) – Quando una persona ha uno spavento o si meraviglia .

 

Ndavi ù ficutu petrusu  (Ha il fegato duro) – Qualora un individuo compie un’azione sleale.

 

Puru chi chiovi no chiovi petri i mulinu (Anche se piove non sono pietre di mulino) – Espressione sdrammatizzante

 

Chi mi chiovi petri i mulinu (Dovrebbe piovere pietre di mulino) – Imprecazione di una maledizione.

 

Comu mi la paghi di la molo (Come mi paghi cosi affilo   -riferita alla pietra cote in dialetto reggino petra mola) – Espressione usata a quanti non vorrebbero pagare il giusto dovuto e nello stesso tempo pretendono il lavoro eseguito a regola d’arte.

 

Ma vitti petri petri (Tradotto in italiano il detto non ha  alcun senso) Riferito ad uno scampato pericolo.

 

 

Oltre che nella costruzione degli edifici e della pavimentazione stradale, questo nobile materiale, ha rivestito un ruolo importante anche nel campo agricolo,qui ha trovato impiego nella costruzione delle famose”Armacere” o “Armacia” che altro non sono che dei muri a secco utilizzati per contenere il terreno nella coltivazione dei terreni scoscesi o per dividere i fondi.

La parola deriva dal latino “ maceriae” mentre il greco” Ermkia” ha generato il grecanico “ armacia”. Infatti l’uso agricolo cominciò a diffondersi proprio con la colonizzazione greca.

“L’armacera” è una espressione di un’arte antica, una tecnica, un sapere tradizionale appreso e trasmesso di generazione in generazione, che s’intreccia con l’abilità individuale; costruirla è una operazione lunga e complessa che segue fasi ben precise, dalla scelta della pietra (i petri sunnu comu  i cristiani  tutti ponnu essiri boni. Basta mi sai canusciri), all’intaglio, alla sovrapposizione, all’incastro. Altra prerogativa del muro a secco è che non viene utilizzata la malta o altri leganti.

Come si può dedurre questa applicazione dell’abilità creativa sta per precarietà e alcuni versi recitano:

L’amuri esti fattu

comu n’armacera

Travagghi n’annu

e si spascia nta n’ura.

Un altro modo di dire,quando in una famiglia numerosa viene a mancare un primo componente”Cariu a prima petra,ora chianu,chianu l’armacera cari tutta”.  

 

La pietra, questo semplice basico materiale che racchiude in se tanti metaforici significati quali la durezza, la versatilità, l’ostinazione, l’affidabilità ci ha visto nascere e ci ha fatto crescere e l’abbiamo trovata sempre al nostro fianco……..magari l’Uomo potesse fare affidamento su tutti i suoi consimili al pari di quello che può riservare alla Pietra.

 

Alla stesura del testo ha collaborato Giuseppe Moscato

I JOCHI I NA VOTA “ I CIAPPI”

Dopo aver trattato nella nuova “Sezione” “i JOCHI I NA VOTA”, della “Rumbula”, continuiamo a parlare dei passatempi dei nostri avi parlando di un gioco anch’esso semplice e banale quanto divertente e “sadico” come il gioco della “Rumbula”. Lo svago in questione è il gioco “ri Ciappi”. 

La “Ciappa”, principale strumento del gioco, come tante altre parole dialettali, trova difficile riscontro nella lingua italiana.  Ricercando le origini di tale parola dobbiamo rifarci al vocabolario spagnolo dove troviamo il termine Chapa che significa pietra o lastra. In effetti il principale strumento di questo antico gioco era semplicemente costituito da materiale di risulta, che si trovava facilmente in prossimità di qualche casa in costruzione.

La “Ciappa” solitamente era costituita da un pezzo di mattonella di graniglia o segato di marmo (in rari casi se si aveva la fortuna di trovare scarti di marmo, che all’epoca era roba per ricchi, si usava tale materiale perché molto più resistente degli altri agli urti). Inizialmente tale attrezzo veniva usato, nel gioco “ri ciappi”, di forma quadrata/rettangolare ma con il passare del tempo e con la “professionalizzazione “di tale svago assunse formarotondeggiante. I più bravi levigavano gli angoli della “ciappa” in maniera tale da dare un aspetto circolare facendola aderire il più possibile al proprio incavo (costruita su misura) che si formava tra il pollice e l’indice dove veniva inserita la “Ciappa” pronta per essere lanciata con precisione. Il tempo che si dedicava alla preparazione dello strumento di gioco era veramente tanto perché venivano smussati gli angoli con certosina precisione facendo attenzione a non provocare la rottura dello stesso. L’operazione di smussatura veniva effettuata per abrasione degli angoli con altro materiale più duro ed infine con lo strofinio leggero della curvatura ottenuta. Nell’aria che si respirava in vicinissima prossimità di tale lavorio si percepiva quel vago odore di bruciatura soprattutto quando, a subire tale operazione, erano due pezzi di marmo duro.

Il gioco consisteva nel colpire, tramite il lancio della“Ciappa, un bersaglio chiamato “U’Mastru” posto al centro del “campo da Gioco” che trovava sede sempre in una qualsiasi strada (all’epoca non c’era il pericolo del passaggio di automobili perché erano veramente rare). “U Mastru” le cui dimensioni erano di circa 10 cm di altezza ed una base di 5/6 cm, era rappresentato da un pezzo di residuo di materiale edile di forma triangolare con la base un po’ più ingrossata per dare un minimo di stabilità. Sulla qualità del materiale, per questo secondario strumento di gioco, non si poneva particolare attenzione anche se solitamente era dello stesso materiale della “Ciappa”. Il campo da gioco veniva delimitato, nella parte inferiore, da una “singa” (tacca) iniziale ovvero una linea che costituiva il punto di partenza del “lanciatore”, da un’altra linea intermedia posta ad 1 metro parallela alla “singa” iniziale. Il bersaglio trovava allocazione a 8/10 metri dalla “singa avanti (superiore)”. La linea intermedia segnava il punto massimo entro cui il “lanciatore” doveva lanciare la “Ciappa”, questa non poteva essere toccata nè superata, ed era tracciata in maniera tale che se la si calpestava rimaneva “U signu” dando così luogo all’esclusione dal turno di gioco di chi aveva commesso tale infrazione. Il gioco consisteva, banalmente, nel colpire il “Mastru” tramite il lancio della “Ciappa” e farlo cadere a terra. Se il “Mastru” pur essendo colpito rimaneva in piedi, il colpo non veniva dichiarato vincente.

 

Una variante era costituita dal giocare senza “U mastru” ed al suo posto veniva tirata una linea orizzontale. Vinceva chi più si avvicinava ad essa mentre chi la superava veniva escluso dal turno di gioco.

Altra variante era quella di porre come bersagli più “Mastri” rendendo quindi più lungo ed interessante un turno di gioco.

La posta in palio era costituita da dei bottoni e rare volte da monete di 5 o 10 lire, questi venivano poste a castello dietro “U Mastru”. Il vincitore dell’intera posta in palio o di parte di essa (bottoni o monetine che fosse), era colui che dopo aver abbattuto “U Mastru” posizionava la “Ciappa più vicino alla posta in palio. Le monetine o i bottoni più vicinialla “Ciappa” andavano al lanciatore mentre quelli più vicini al “Mastru” venivano riposizionati nuovamente dietro di esso per essere rimessi in gioco. La distanza tra “ù Mastru” “a Ciappa” e la posta in gioco, veniva misurata usando una parte “ra cannicia”. Questa altro non era che un pezzo di canna ricavato dallo stelo della “Lisara”( pianta diffusa oltre che in Calabria anche in tutta l’area Mediterranea; le sue foglie a nastrino sono taglienti tanto che il nome comune nel resto d’Italia è “ Tagliamano”).Lo stelo in questione può raggiungere i 2 mt. d’altezza e nella parte superiore ha la spiga con i semi.

I giocatori dovevano essere un minimo di due. Nel caso fossero solo due, e qui viene l’aspetto “sadico” al pari della “Rumbula”, oltre la posta in gioco, il vincitore aveva il diritto di rompere con la propria, la “Ciappa” dell’avversario che tanta fatica e tempo aveva richiesto nella sua preparazione.

L’ordine di lancio veniva stabilito “ cu toccu”- con la conta

Una volta terminato un turno di gioco si rimetteva tutto a posto come nella fase iniziale, fino a quando non si esauriva la posta in gioco. 

 

Alla stesura del testo ha collaborato Giuseppe Moscato.

Gallina …..la rivincita dei Borboni

A cosa risponde la sentita esigenza d’indentificare le strade attraverso l’uso di nomi di personaggi, luoghi, avvenimenti, date ecc ecc (o come utilizzato più semplicisticamente nei paesi anglo americani assegnando semplici numeri). Ci sentiamo di rispondere che tale bisogno risponda alla necessità pratica di poter fornire delle coordinate ben precise e facilmente reperibili, per trovare un ben determinato sito, sia esso relativo ad abitazione privata, pubblica, azienda ecc. ecc. Pensate cosa succederebbe se per individuare un’abitazione si dovessero fornire le coordinate geografiche che ugualmente consentono d’identificare un definito punto sul globo terrestre!!! Ad ogni via si è quindi proceduto ad assegnare un toponimo per poi individuare il punto preciso attribuendo un relativo numero progressivo (per convezione da un lato della strada si sono assegnati i numeri pari e dell’altro lato quelli dispari) detto “numero civico”. Il continuo variare la denominazione delle vie non fa altro che ingenerare confusione e far venir meno la funzione primaria a cui assolve la toponomastica (o meglio sarebbe dire l’odonomastica) di qualsiasi luogo. Recentemente si è proceduto ad un cosiddetto “riordino” delle vie di Reggio Calabria ed anche Gallina ne è stata coinvolta. In tale operazione se volessimo fare una graduatoria e stilare vincenti e perdenti potremmo senza dubbio, genericamente affermare che: antico batte recente passato, Borboni vincono sui Savoia, Il Regno delle due Sicilie batte Regno d’Italia con buona pace dei monarchici e vittoria dei Neo Borbonici.

Così La via Regina Elena – Casa Savoia -(Donna di grandi virtù e sensibilità umane) diventa via Francesco Pignatelli -Borbone – (vicario del Re in Calabria ai tempi del terremoto del 1783) e la via Vittorio Emanuele III° – Casa Savoia – scompare mentre trova albergo nella città Santagatina, Via Ferdinando IV° di Borbone che sostituisce la via Cipollaccio

La motivazione ufficiale di tale sostituzione sarebbe quella che, la Commissione Toponomastica, avallando la norma che nello stesso Comune non ci possono essere due vie con lo stesso nome (la prima si trova a Catona mentre il secondo non è altro che la via Marina alta) abbia proceduto a tale intervento anche se persistono in ambito Comunale tanti altri casi di duplicazione di toponimi la cui soluzione viene trovata per lasciare la duplice denominazione aggiungendo il luogo ove trovasi. Così accade per via Rimembranze che trova allocazione sia a Pellaro che quindi diventa via Rimembranze di Pellaro che a Gallina ove diviene Via Rimembranze di Gallina (spazio alla fantasia!!!!!). Chiediamo allora perché via Regina Elena non poteva diventare Via Regina Elena Gallina e Via Regina Elena Catona? Per non ingenerare ridicoli equivoci o per altri motivi?

Poniamo due interrogativi in merito:

– Si doveva procedere alla soppressione di due toponimi esistenti (seppur trovano legittimazione da quanto sopra scritto) e non si trovavano due vie prive di denominazione a Gallina? Un detto dice che a “pensar male si sbaglia ma molte volte si azzecca”. Con questa soppressione la relativa commissione potrebbe passare come Neo Borbonica ed anti Savoia, perché prestare il fianco a tale “fallace” visione manichea e non dar vita a due vie ex novo senza far sparire retaggi di monarchica visione?

– Se proprio si dovevano intitolare due vie che rimembrassero l’epoca Borbonica che anche presso Gallina ha lasciato segni tutt’ora tangibili, non vi erano altri nomi di più degno ricordo? Non volendo analizzare il personaggio storico, ci domandiamo che cosa ha fatto di buono nella nostra zona (e non solo) che meriti l’intitolazione di un’arteria cosi importante, se non essere il governante del periodo, stessa cosa vale per il Pignatelli. 

In merito al primo quesito ci sentiamo di rispondere in maniera affermativa, ovvero SI, ci sono tante altre vie o tratti di vie senza nome o con uguale nome di una via “spezzatino” Prediamo il caso di Via Caserme, la prima parte è stata giustamente denominata all’Arcivescovo Demetrio Moscato, in quanto insisteva la casa natia, angolo via Chiesa Madre. Ma il tratto che nel tempo è stato interrotto dall’attuale Casa Giunta (ex Asilo delle Suore Sacramentine) e che va da Via Carlo Alberto all’attuale via Iaria (già via Baraccone) perché non intitolarlo ad una personalità Borbonica (visto che la Commissione ci teneva così tanto?); oppure la Via Miniera che partendo dal Campo Sportivo di Gallina giunge fino al muraglione della fiumara ad Arangea e che s’interrompe presso le nuove costruzioni sotto la casa di Malavenda non poteva accogliere una nuova “Borbonica” denominazione?

Ci sentiamo di dissentire anche sulla scelta dei due nomi Borbonici. Se si fossero voluti onorare i regnanti Borbonici avremmo preferito nomi che hanno fatto grande il Sud. Ci sentiamo quindi di poter dire che sarebbe stato più giusto intitolare una via a Ferdinando II° di Borbone, che sotto il suo Regno (anche se denigrato come il malvagio “Re Bomba”) venne costruito il primo Teatro lirico il San Carlo, la prima Galleria al mondo, la prima linea telegrafica elettrica, il primo ponte sospeso, prima ferrovia e stazione, primo Osservatorio Sismologico,etc;

Per ricordare i Borbonici forse sarebbe stato più giusto intitolare agli architetti militari Mori e Lavega, che hanno realizzato l’impianto urbanistico del paese e realizzato la Fontana Borbonica (à funtana vecchia, ancora esistente anche se abbondonata e sommersa dai rovi), la via denominata Fontana Vecchia.

Oppure perché non intitolare una via all’ing. Fumaroli l’emissario del Re che individuò il pianoro (colui che disse “Sire è un luogo che non ha nulla d’invidiare a Posillipo) dove doveva sorgere la Nuova Città di Sant’Agata dopo il terremoto del 5 Febbraio 1783.

Se ne volessimo fare un discorso di “genere” potremmo dire che con la cancellazione di via Regina Elena si è proceduto all’eliminazione dell’unico toponimo rappresentate il genere femminile. Per fortuna la Commissione ha salvato quest’atto apparentemente discriminatorio, intitolando una via a Francesca Iero- Ostretica.

Infine desideriamo porre due temi di ordine pratico sempre in merito a tale “riordino” (veramente pensiamo si tratti di caos!!). Per prima cosa sarebbe il caso che la relativa commissione desse mandato a numerare in modo corretto e consono le strutture che insistono sulle vie senza lasciare al libero arbitrio i relativi residente che si trovano nella condizione di doversi attribuire un probabile numero civico.

In secondo luogo, una volta rese ufficiali le nuove denominazioni, attraverso l’approvazione della delibera di Giunta, sarebbe il caso di apporre i nuovi cartelli segnaletici: primo per far conoscere alla gente che la loro via ha cambiato denominazione e non dire al postino “no sugnu ieu”(non sono io il destinatario) ,secondo non fare uscire fuori di senno i vari corrieri e i ragazzi che consegnano cibo a domicilio (Rider).

Secondo il nostro parere le intitolazioni o le soppressioni delle vie, in particolar modo nei paesi, devono avere un aspetto che accomuna. La loro scelta deve essere tale per cui la comunità locale si senta rappresentata dalle istituzioni, per cui i nomi delle vie devono appartenere integralmente alla memoria culturale e comunicare soprattutto i valori. Infine i nuovi toponimi e le cancellazioni (verso le quali ci sentiamo di esprimere forte diniego perché il passato anche se fa male non va cancellato) non devono dar luogo a presupposizioni di appartenenza della Commissione ad uno schieramento piuttosto che ad un altro, ad una fazione anzicchè ad altra ma devono avere il solo ed unico scopo di mantenere memoria del passato.

Ci piace concludere con le parole di Giuseppe Moscato ,giornalista scomparso nel 1986 ed il cui centenario della nascita è appena trascorso da 1 anno, tratte dal libro “Le divinità della Magna Grecia” in merito al ricordo di alcuni Dei nella toponomastica Reggina: “I nomi di Possidonia, Apollo e Diana resistono ancora alla mania innovatrice o, se si preferisce, distruttrice, dei nuovi tempi, costituendo una testimonianza solenne che bisogna conservare perché le nuove generazioni non dimentichino del tutto un periodo di vita della Città”.

Testo di Filippo e Giuseppe Moscato

U’ SPONZALI

( Il Matrimonio)

Nel corso dei secoli le usanze e le tradizioni, pur tramandandosi di generazione in generazione, si sono adattate alle mutate necessita’ delle coeve civiltà ed hanno quindi assunto sembianze diverse o sono scomparse totalmente. L’atto dell’unione civile o religiosa, con effetti civilistici, tra due persone è rimasto tale, come atto giuridico sostanziale, nel corso dei secoli, variandone in molti casi l’aspetto formale. Le usanze che precedono la Cerimonia Nunzialesono diverse e variegate a secondo delle popolazioni e/o dei luoghi in cui questo si celebra. In Calabria ed in particolare nel reggino la celebrazione del Matrimonio rappresenta solo l’atto conclusivo di un iter che comincia già da quando i due soggetti che si debbono unire in tale legame, decidono di dividere il loro futuro con la richiesta di fidanzamento. Tale iniziale atto solitamente trova genesi nella richiesta rivolta dalla parte maschile a quella femminile (almeno formalmente perchè il più delle volte è il cosiddetto sesso debole che “invita” l’amato a farLe la proposta).

Nei tempi che furono era sogno di tutte le ragazze convolare a nozze ovvero a non rimanere “schette”(zitelle). Una tale condizione di nubilato era ritenuta umiliante, per cui “ù sponzali” (dal latino tardo sponsalicius), ossia il Matrimonio, era l’obiettivo principale di ogni figlia femmina fin dalla giovane età.

Un detto abbastanza violento recitava” fimmina a diciott’anni, o a mariti o a scanni”( la donna a diciotto anni o la dai in sposa o la uccidi) il che dava già l’idea di quanto veniva tenuta in considerazione una donna nubile. Per l’uomo invece l’età ritenuta idonea per “maritarsi”(sposarsi) erano dai 26 anni in su, in ogni caso dopo aver assolto agli obblighi di leva.

Durante il periodo fascista e precisamente il 13 Febbraio 1927 venne istituita l’imposta sul celibato, che aveva lo scopo di favorire i matrimoni. Tale imposta non aveva fine a se stesso ovvero quello di far aumentare il numero dei matrimoni ma sottintendeva la conseguenza di ciò che tale atto doveva portare ovvero la costante crescita della popolazione attraverso la procreazione. Questa legge non fu una prerogativa del regime di Mussolini, ma l’imperatore Augusto aveva già introdotto un’imposta simile per i senatori senza moglie.

Dopo l’”editto Mussoliniano”, l’età ideale per contrarre matrimonio scese a 25 anni, poiché chi rimaneva celibe da quell’età in poi, era obbligato a pagare una tassa costituita da un contributo fisso che variava secondo gli anni e il reddito. L’importo era fissato in Lire 70 per la fascia 25/35 anni e Lire 100 per la fascia 36/65 anni, mentre dai 66 anni in poi si era esenti da tale pagamento. Nonostante ciò se un giovane maschio fosse stato pronto a convolare a nozze ma aveva in casa ancora una sorella da maritare, allora doveva cederle il passo poichè questa ne aveva priorità.

Nessuna tassa invece era posta al nubilato (forse per quanto scritto sopra).

Una “tassa volontaria” però era “imposta dalla tradizione” quando in una famiglia veniva alla luce una “fimmina”. La Mamma era tenuta dalle usanze (ed in certi posti è ben noto che le usanze valevano più di cento leggi) ad iniziare a costruire, sin dalla giovane età della fanciulla, la cosiddetta  “Dote”.Questa consisteva in tutti quei beni di base necessari ad una costituenda famiglia ovvero le lenzuola, qualche corredino, le tovaglie ed in alcuni casi anche la batteria da cucina, tutte rigorosamente di un certo valore, non era raro che la famiglia s’indebitasse pur di costituire una buona dote alla figlia femmina.

Inoltre la tradizione voleva che le ragazze oltre a fare le faccende domestiche, preparassero parte del corredo, dopo aver appreso l’arte del ricamo presso le suore (nella nostra zona Gallina “le Sacramentine”) o nelle case delle sarte maestre( la signorina Mica Catanese , le signore Marinelli).

Seconde le antiche usanze non ci si sposava né di Maggio- Agosto- Novembre. La spiegazione di tale tradizione potrebbe essere ricercata negli scritti di Ovidio, secondo i quali gli antichi Romani commemoravano i loro defunti l’ultimo mese dell’anno che corrispondeva  a Maggio, quando il calendario era di 10 mesi, o ad Agosto quando furono aggiunti gli altri due. Il mese di Novembre secondo il calendario Gregoriano era da evitare perché si onorano i defunti. Inoltre, sempre secondo le usanze, non si convolava a Nozze nelle giornate di Martedì – Venerdì e Lunedì (che era il giorno dedicato alle anime purganti), per cui le giornate utili, per Celebrare il sospirato rito, erano Mercoledì- Giovedì- Sabato e Domenica (quest’ultima era la più scelta).

Per organizzare “U’ Sponzali” bisognava preparare le cose per tempo ed il più delle volte non bastava un anno, perché i tempi erano austeri e ricche di usanze e tradizioni ed in molti casi superstizioni da rispettare.

Nei giorni che precedevano il matrimonio a casa della “zzita” veniva esposta la dote tirata fuori dalle “casce”(bauli) e le stanze venivano inondate dallo sgradevole odore dalle palline di naftalina, questa veniva posta a protezione della preziosa merce per preservarla da insetti e roditori perchè proprio grazie al forte odore li teneva lontani. 

Altro momento importante, imposto dalle usanze, era quella della preparazione del letto degli sposi prima del fatidico “si”. Le amiche o/e le sorelle della sposa si recavano nella futura dimora a preparare il talamo utilizzando rigorosamente lenzuola bianche(quelle colorate non esistevano). Tale biancheria era costituita da lino o da seta perchè quest’ultimo tessuto si reperiva facilmente in quanto fino agli inizi degli anni 60 dello scorso secolo, le famiglie contadine allevavano “ ù funiceddhu” ovvero il baco da seta. Era obbligo che nella composizione del gruppo ci fosse sempre una donna vergine (……o quanto meno senza che avesse mai partorito!!………) e una sposata ,poiché toccava alla prima preparare il letto sotto il controllo della seconda (segno d’esperienza e saggezza). Una volta completata l’azione di preparazione, si faceva salire sul letto una”figghioledda”( bambina), come auspicio per la coppia di fertilità.

Una superstizione tramandata nel corso degli anni riguardava l’abito nuziale. Quando questo veniva “’Ccattatu”(comprato) o “ffittatu”(nolo) (certe volte era riciclato) non veniva riposto nell’armadio della casa paterna, ma veniva affidato a una zia o alla nonna. Questi ne rimanevano custodi fino al giorno prima delle nozze ed  una volta portato nell’abitazione paterna ne veniva fatto assoluto divieto d’indossarlo e guardarsi allo specchio.

Arrivato il fatidico giorno, l’uscita di casa, in particolar modo quella della sposa, veniva salutata da una “salve” di colpi di fucile sparati in aria in segno di festa. La promessa sposa veniva accompagnata a braccetto dal padre e dal corteo dei parenti che li seguivano, percorrendo la strada più lunga per giungere in chiesa.

Una volta giunti nel tempio di culto la neo sposa, per un’atavica superstizione, doveva varcare “ù bizzolu”( la soglia) con il piede destro, per poi arrivare sull’altare dove doveva prendere posto alla sinistra del futuro sposo. Il motivo di tale posizionamento non era casuale ma basato sul simbolico fatto che questi dovesse avere la mano destra libera, pronta ad essere usata nel caso si fosse presentato qualche altro pretendente.

Un’altra superstizione era quella che una volta terminata la funzione religiosa gli sposi dovessero alzarsi contemporaneamente, poiché si credeva che il primo ad alzarsi sarebbe morto per prima.

Per quanto riguardava il fotografo, per chi all’epoca se lo poteva permettere, la foto era una sola tutti assieme sul sagrato. L’atto finale del rito religioso si appalesava nel momento in cui “ù previti”(sacerdote) recitava le parole “ite missa est”. A seguire s’intrattenevano gl’invitati con il cosiddetto “ricevimento” che, soprattutto nei periodi di forte carestia, si limitava ad un rinfresco. Questo si svolgeva solitamente nel salone di casa o come, nel nostro paese, nel salone delle riunioni del Comune, che veniva addobbato con rami di palme.

Gli sposi sedevano in fondo al salone al centro dietro un tavolo con la tovaglia bianca. “I ‘mbitati”(gli invitati) erano rappresentati dai parenti più stretti, il compare o comare di battesimo o cresima e raramente a qualche amico d’infanzia.

Quella che non mancava in ogni “sponzali” era la musica ed ad eseguirla, in genere, erano due elementi, un chitarrista e un fisarmonicista. Altre volte veniva utilizzato “ù grammofunu” un giradischi dove si mettevano i dischi in vinile a 78 giri.

Il rinfresco era costituito da “pastetti secchi”, “pezzi di stomaticu”, “rosolio” di vari colori fatto in casa e,chi se lo poteva permettere, “ù spumoni” detto anche “pezzu duru”,questo non era altro che un gelato contenuto in piccole forme cilindriche di metallo che veniva tagliato in otto parti e servito nei piattini rigorosamente di metallo. 

Per concludere c’era sempre la torta di forma rotonda a strati disposta su un’alzata di metallo con in cima due piccoli sposi in miniatura. Le bomboniere non erano presenti e nei rari casi in cui ce li si poteva permettere, erano costituiti da cestini inamidati fatti all’uncinetto o al tomolo ed al cui interno venivano risposti i confetti. Altre volte, quando gli eleganti contenitori non erano presenti, gli sposi con un grande cucchiaio a forma di conchiglia e un cestino metallico distribuivano i confetti che i partecipanti riponevano nel fazzoletto o direttamente dentro la borsa.

Ritornati nella nuova dimora la sposa prima di varcare la porta d’ingresso come augurio rompeva un piatto colmo di riso e confetti e, di regola gli sposi, rimanevano a casa, dopo il matrimonio, una settimana per ricevere la visita di parenti e amici.

Con l’avvento del boom economico(1959-1970) incominciarono a prosperare le sale ricevimento(Azalea, Barreca, Azzurra, Orchidea etc;) che venivano “fittati”(affittati) per l’occasione e il singolo musicista veniva sostituito dal complesso musicale.

Non possiamo non concludere questa nostra esposizione con il fatidico detto che gli invitati, salutando gli sposi, recitavano solitamente ovvero

                                           “ AGURI E FIGGHII MASCULI ”.

 

Alla stesura del testo ha collaborato Giuseppe Moscato